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Un piccolo affioramento roccioso situato a poco più di 3 chilometri al largo della capitale del Senegal. Un piccolo gioiello di architettura e storia. Un’isola piccola, davvero piccola, solo 900 metri di lunghezza per 300 metri di larghezza. Eppure un’isola piena di storia. Gorée, è un luogo della memoria, una memoria triste che tocca tutti gli esseri umani.

L’isola é stata per più di tre secoli uno degli ultimi porti in terra africana della tratta degli schiavi, come Saint Louis e Elmina in Ghana. Poi nel corso dei decenni si è trasformata seguendo una parabola prima discendente e poi ascendente. La nascita di Dakar nel 1857, sulla terraferma di fronte all'isola, ne segnò inizialmente il destino: la macchina amministrativa coloniale aveva bisogno di collegamenti rapidi con l'interno del paese, così l’isola venne abbandonata e iniziò un periodo di decadimento economico.

Negli anni ’70 avvenne un primo cambiamento: l’Unesco si interessò all’isola e nel 1978 la inserì nella lista dei siti da tutelare come patrimonio mondiale dell’umanità.


Nell’isola, i racconti rituali degli eredi di Joseph Ndiaye ai visitatori che vengono dai quattro continenti sono sempre sconvolgenti. Cominciato con degli attacchi armati portoghesi, seguiti da rapimenti detti “filhament”, il commercio degli schiavi neri raggiunse, nel 1687, uno sviluppo eccezionale per merito di intermediari locali. La “Casa degli schiavi”, principale attrazione dell’isola, è stata costruita nel 1776 dagli Olandesi. E’ la seconda in ordine di tempo a Gorée; la prima risale al 1536, costruita dai Portoghesi, i primi europei a mettere piede sull’isola nel 1444.
Gorée, nome che è una deformazione dell’olandese “Good Reed”, vale a dire “buona rada”, fu un’anticamera della morte. Passata “la porta del viaggio senza ritorno”, migliaia, addirittura milioni di schiavi tentarono la fuga, non sapendo più cos’altro fare, tuffandosi nell’oceano atlantico. Tutti furono abbattuti a colpi di moschetto. E, secondo i narratori, le rive dell’isola erano piene di cadaveri.
Gli schiavi, il cui valore era quello del bestiame, “vivevano in uno stato di igiene così ributtante che la prima epidemia di peste che ha devastato l’isola nel 1779 è cominciata proprio da questo centro di raccolta”. Spesso tra gli schiavi c’erano intere famiglie: padre, madre e figli. Per partire verso le Americhe tutto dipendeva dagli acquirenti. Il padre poteva ritrovarsi in Louisiana, la madre in Brasile o a Cuba, mentre i figli raggiungevano Santo Domingo. Nessuno schiavo aveva il diritto di conservare il suo nome africano. Ad essi erano affibbiati dei numeri di matricola. Una volta raggiunte le piantagioni, acquisivano il nome del loro proprietario.
Prima di morire, Joseph Ndiaye così ha commentato la gravità del danno subito: “La somma di miserie e morti che la tratta dei Neri ha provocato va al di là di tutto quello che si può immaginare. Strappati al loro suolo natio, trasportati in un paese straniero, senza conoscerne la lingua, con una rilevante sproporzione tra il numero degli uomini e quello delle donne, distribuiti tra i padroni a seconda dei venti, prostrati dal lavoro e senza altra istruzione se non la disciplina e le botte, questi Neri, ridotti allo stato di individui sperduti, non potevano ricostituire delle famiglie”.


Molti uomini di Stato bianchi, come il presidente nordamericano Bill Clinton, il Papa Giovanni Paolo II, o artisti come Michael Jackson, Will Smith, etc, non hanno saputo trattenere le lacrime davanti a fatti di una tale crudeltà. Il francese Michel Rocard lo ha riconosciuto nel libro d’oro del “santuario” (il 23 dicembre 1981): “E’ difficile per un uomo bianco che si consideri onesto visitare la Casa degli schiavi senza provare un vivo sentimento di malessere – ha scritto – Che la nostra lotta per un migliore avvenire contribuisca a disperdere le tracce di questa lunga e dura storia”.
Oggi, insistono i conservatori, questo luogo di pellegrinaggio, per il mescolamento ed il vivo interesse che suscita soprattutto nel pubblico bianco, è diventato un santuario della riconciliazione delle razze e dei popoli.
Tuttavia, al di là dell’emozione e delle lacrime dei racconti che si rovesciano sull’isola, un vero dibattito si sta aprendo su questi secoli dei quali l’umanità prova unanime vergogna, al punto da dedicare ad esso una giornata commemorativa. Il primo piano della “Casa degli schiavi” di Gorée scopre nei suoi dedali e nelle sue vetrine poco fornite una delle più gravi lacune di questo dramma: l’umanità non ha potuto oggi ricostruire, nemmeno in modo approssimativo, lo scenario di questo immenso crimine. In particolare il saccheggio incommensurabile di risorse di ogni genere che ne è derivato fino alla colonizzazione. Al di là dei discorsi e delle intenzioni, anche il continente nero, che pure vi è interessato in prima persona, è rimasto inerte, come se temesse di disturbare il sonno di un certo Occidente schiavista che, senza dubbio, nasconde ancora nelle sue cave le più preziose prove di questo commercio…
Oltre a qualche ferro vecchio esposto nella “Casa degli schiavi”, ai resti di una o due gogne, uno o due moschetti fissati ad amuleti, dove cartelli moderni, prodotti dalla cooperazione multilaterale, ripercorrono brevemente, la storia della schiavitù dall’inizio fino alla sua abolizione di un secolo e mezzo fa, il mondo resta sfornito di testimonianze su questa multisecolare efferatezza. Nemmeno l’Africa ha mai svolto proprie ricerche per raccogliere prove sull’enorme saccheggio di uomini che spiega, forse in parte, il suo malessere attuale. Secondo un osservatore avvertito, “un calcolo aritmetico, anche approssimativo, del disastro e la restituzione/indennizzo sarebbero il serio prezzo ed il fondamento di un vero perdono. Non si può indennizzare ciò che non si è prima calcolato”. I narratori di Gorée amano ripetere: “Abbiamo perdonato, ma non dimenticato”.



Jean Marc Soboth, giornalista
[Modificato da kamo58 22/03/2012 08:15]