00 30/03/2012 08:36
Josè Saramago




"Che hai fatto a tuo fratello, domandò, e caino rispose con un’altra domanda, Ero forse il guardaspalle di mio fratello, L’hai ucciso, Proprio così, ma il primo colpevole sei tu, io avrei dato la vita per la sua vita se tu non avessi distrutto la mia, Ho voluto metterti alla prova, E chi sei tu per mettere alla prova colui che tu stesso hai creato, Sono il signore sovrano di tutte le cose, E di tutti gli esseri, dirai, ma non di me né della mia libertà, Libertà di uccidere, Come tu sei stato libero di lasciare che uccidessi abele quando era nelle tue mani evitarlo, sarebbe bastato che per un attimo abbandonassi la superbia dell’infallibilità che condividi con tutti gli altri dèi, sarebbe bastato che per un attimo fossi realmente misericordioso, che accettassi la mia offerta con umiltà, solo perché non avresti dovuto osare rifiutarla, gli dèi, e tu come tutti gli altri, hanno dei doveri verso coloro che dicono di aver creato...”




A vent'anni dal Vangelo secondo Gesù Cristo, José Saramago torna a occuparsi esplicitamente di religione con una prova narrativa impeccabile per stile e ironia. Se in passato il premio Nobel portoghese ci aveva dato la sua versione del Nuovo Testamento, ora si cimenta con l’Antico. E per farlo, sceglie il personaggio più negativo, la personificazione biblica del male, colui che uccide suo fratello: Caino. Capovolgendo la prospettiva tradizionale, Saramago ne fa un essere umano né migliore né peggiore degli altri. Al contrario, il dio che viene fuori dalla narrazione è un dio malvagio, ingiusto e invidioso, che non sa veramente quello che vuole e soprattutto non ama gli uomini. È un dio che rifiuta, apparentemente solo per capriccio e indifferenza, l’offerta di Caino, provocando così l’assassinio di Abele.



Il Vangelo secondo Gesù Cristo, la splendida opera di Saramago, punto fermo della letteratura del secolo scorso, rileggeva nella visione sconsolata e atea del suo autore il Nuovo Testamento. Caino invece ripercorre alcuni episodi cruciali dell'Antico proponendo una tesi: dio è lontano, assente e indifferente alle sofferenze degli uomini, il suo silenzio è interrotto solo da interventi devastanti, da prove della sua potenza che richiedono agli uomini atti terribili. In questa solitudine, minacciata e non certo protetta dalla presenza di un dio, gli uomini cercano di sopravvivere e il dialogo con quello che si dichiara il loro creatore o è di totale e cieca subordinazione o non può che essere conflittuale.

Ed ecco Caino, che la tradizione biblica addita come il peggiore degli uomini, colui che ha ucciso il fratello, che Dante fissa come meritevole della punizione infernale più severa perché è il traditore per eccellenza, diventare protagonista di questo libro. È stato dio a non fermare la sua mano, ma a provocarla, dando ad Abele ogni successo e facendolo contrapporre a Caino con presunzione arrogante. La responsabilità ultima perciò è di chi induce in tentazione, anzi esaspera questa tentazione in modo malvagio.

La crudeltà di dio poi si ripropone più volte nell'esistenza fuggiasca che Caino è costretto a vivere (maledizione di dio che non lo vorrà vedere morto, ma sofferente e nomade per lunghi anni). Una fuga questa che gli permette di percorrere avanti e indietro il tempo così da entrare in contatto con altre "vittime", da Abramo a Noè a Giobbe: uomini devoti e pii ricompensati con crudeli ordini da quel dio che consentirà la morte di bambini innocenti, mescolati ai peccatori, nel fuoco di Sodoma, che dividerà e non unirà gli uomini, portandoli sempre a scontri fratricidi.

Questa lettura così spietata della divinità anticotestamentaria appare talvolta didascalica così da perdere la tensione emotiva, la pietas, del Vangelo secondo Gesà Cristo e farsi essa stessa lectio. C'è una frase che ricollega strettamente le due opere: In punto di morte gesù chiede agli uomini di perdonare dio perché non sa quello che fa, certo quel dio che abbandona il figlio non sa quello che fa, qui invece lo sa benissimo e per questo è ancora più crudele. E il sarcasmo, nota caratteristica delle invettive di Saramago, appare talvolta inadeguato a un tema così drammatico che spinge a più profonde riflessioni.

Molti momenti dell'Antico Testamento forniscono più di un motivo per affermare la violenza di dio contro gli uomini; ecco due brevi passi dal libro dei Profeti: Amos 2,13: «Ecco, io vi schiaccerò, come un carro carico di covoni schiaccia la terra...»; Geremia 5,14: «Poiché così parla il Signore, Dio degli eserciti: Poiché avete detto quelle parole, ecco, io farò in modo che la parola mia sia come fuoco nella tua bocca, che questo popolo sia come legno, e che quel fuoco lo divori».

Altri intellettuali, altri pensatori hanno testimoniato l'impossibilità che coesistano il male e dio. Ecco una riflessione di Norberto Bobbio: Che la risposta dell’uomo di fede sia consolatoria, e Dio sia quel famoso «tappabuchi», cui tu stesso accenni, fa certamente una bella differenza rispetto alla liberazione dell’angoscia mortale cui tu ti richiami spesso da Pascal a Kierkegaard. Ma ci dobbiamo accontentare? E se quell’essere ineffabile, di cui non possiamo e non dobbiamo dire alcunché, fosse al di là del bene e del male, indifferente a ciò che per noi uomini e per qualsiasi altro essere vivente è bene o male?

E la famosa dichiarazione di Primo Levi: C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.
La ricerca di dio e l'impossibilità di avere risposte, un'angoscia esistenziale che nasce da qualcosa di più grande di ogni certezza. E anche questa insistenza di Saramago nel voler "dimostrare" l'impossibilità dell'esistenza di dio, e la rabbia profonda di non poter accettare il dio della tradizione, indica in un certo senso l'orrore del nulla a cui l'uomo è condannato se sceglie la ragione e non la consolazione della fede. “La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio né lui non capisce noi, né noi capiamo lui" e tutto ciò è intollerabile.

da: wuz.it