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Un viaggio nella storia dell'olio

Ultimo Aggiornamento: 26/04/2012 10:39
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26/04/2012 10:35
 
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L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato. I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.
La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.
La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Schlieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.
L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.
Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.
L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.
Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.
In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.
La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove venivano trattate le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.
Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco "amurca" che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.
Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.
L’olivo per gli etruschi era pianta sacra, tanto che le sacerdotesse ne esibivano i rami durante le processioni. L’oliva dal gusto amarognolo, venne “addolcita” con tecniche che variavano dalla salamoia, all’immersione nell’acqua profumata con finocchio secco e frutti del lentisco.
L'olio d'oliva, decretato prodotto “nazionale” ed esportato come il vino in tutto il Tirreno, aveva vari impieghi. Di eccellente qualità ideale come condimento per ogni cibo. Di grande quantità utile per accendere il fuoco, per alimentare le lucerne e per massaggiare i muscoli di militari ed atleti.




All'apogeo della civiltà romana l'olivicoltura era una delle branche più sviluppate dell'agricoltura. Per spremere le olive erano utilizzati dei contenitori di pietra, sui quali i frutti deposti venivano pestati con mazze, bastoni o appositi utensili.
I "negotiatores oleari", riuniti in collegi di importatori, erano i soli commercianti abilitati a trattare l'"oro verde" Le contrattazioni delle partite avvenivano nella "arca olearia", una vera e propria borsa specializzata.
Gli autori latini che trattano l'agricoltura sono prodighi di consigli su come produrre l'olio. Nulla è lascito al caso: dalle varietà più adatte alla potatura, ai sistemi di raccolta, fino alle tecniche di frangitura. Plinio e Columella, per citare solo alcune fonti, censiscono dieci varietà diverse di olivi, e l'olio viene classificato in cinque categorie:
-"Ex albis ulivis" l'olio più pregiato ottenuto da olive verde chiaro;
-"Viride" generato da frutti che stanno annerendosi;
-"Maturum" frutto di olive mature;
-"Caducum" prodotto da frutti raccolti per terra;
-"Cibarium" spremuto da olive bacate e destinato agli schiavi.
Erano particolarmente rinomati l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico. Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
L'olio di qualità era costoso: Plinio ricorda che il cavolo non era un piatto economico perché doveva essere condito con olio. Virgilio, dal canto suo, suggerendo una ricetta di agliata, consigliava l'uso di tanto aglio, tanto aceto, ma solo "poche gocce di olio".
Questo liquido assunse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell'epoca imperiale, tanto che Giulio Cesare costrinse le province vicine dell'impero a consegnare alla città molti litri di olio come tributo annuale. Il frutto dell'ulivo godeva di una tale considerazione che, in una civiltà basata su una rigida struttura militare e sul reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva.
I primi sintomi della crisi di tanto splendore oleario si avvertirono nel III sec. Il progressivo abbandono delle campagne alla cura degli schiavi, e le continue elargizioni degli imperatori, svuotarono le riserve di olio italico; la produzione nella nostra penisola diminuì e Roma anche per il suo consumo interno inizio ad attingere alle sue province spagnole e africane.
La caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche interruppero i contatti commerciali, facendo decadere l'olio da pianta sacra a specie rustica poco significativa.




Durante l'alto medioevo la distruzione delle campagne portò anche all'impoverimento degli oliveti. Fu dal XII sec., grazie soprattutto agli ordini monastici (olio rituale), che venne dato nuovo impulso all'estrazione del succo d'oliva. Gli uliveti aumentarano in tutta la Penisola, soprattutto in Toscana, dove anche la borghesia commerciale scoprì nella produzione e nel commercio dell'olio una fonte importante di guadagno. Il valore del liquido verde era elevato, veniva utilizzato per tenere accese le luci sugli altari, per cerimonie come la cresima o l'ordinazione dei cavalieri, e per l'estrema unzione.
Se nella cucina antico romana l'olio era uno dei condimenti principali, nella quotidianità della tavola medievale che posto aveva?
Non certo di primo piano: se ne faceva un uso molto parsimonioso, mentre erano indispensabili in cucina: il lardo, lo strutto, la sugna. Il maiale viveva il suo momento d'oro, soprattutto nell'Italia settentrionale il lardo era il "fondo di cucina" per eccellenza, e il “tempus de laride” (tempo del lardo) rappresentava una delle scansioni del calendario contadino pastorale.
Alcune eccezioni a questi usi si rintracciavano:
-al Sud e al Centro fra i ceti alti, dove l’olio veniva consumato come condimento dei cibi a crudo, o come grasso alternativo nei giorni di magro e di quaresima (dal XII sec. fu ammesso anche il burro per le focacce e i dolci, mai per cuocere);
-sulle navi che solcavano il Mediterraneo, dove l’olio assieme alle spezie serviva per condire i cibi dei marinai, come il pesce seccato, la carne salata e le gallette.



da taccuini storici
[Modificato da kamo58 26/04/2012 10:39]
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