Carnevale di Venezia

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kamo58
00venerdì 10 febbraio 2012 09:26



Testo a cura di Pierluigi Ceolin. Executive chef e scrittore.

da Taccuini storici.it



Il Carnevale è una delle feste più antiche e conosciute della tradizione veneziana. Si scrive di questa festività già in un documento del 1094, al tempo del doge Vitale Falier, che parla dei divertimenti pubblici nei giorni che precedevano la Quaresima, in seguito al ritrovamento del corpo di San Marco andato perso durante l’incendio del 1050.
Il Carnevale fu celebrato dalla Serenissima in tutta spensieratezza e allegria anche durante numerosi momenti critici come, per esempio, quando le truppe della Lega di Cambrai accendevano i fuochi dei loro accampamenti ai bordi della laguna minacciando i veneziani “fin nei stramassi”, fino ai loro materassi.

«La stagion del Carnoval tutto il mondo fa cambiar. Chi sta bene e chi sta male Carneval fa rallegrar. Chi ha denari se li spende; chi non ne ha ne vuol trovar, e s’impegna, e poi vende, per andarsi a sollazar. Qua la moglie e là il marito, ognuno corre a qualche invito, chi a giocare e chi a ballar»

Chi se non il Goldoni avrebbe meglio potuto fotografare il Carnevale con questa poesia?
Questa festa, infatti, ha sempre rappresentato una vera e propria rottura con il quotidiano, una parentesi di follia che rovescia le abitudini di tutti i giorni.
In una società in cui la fame era la regola, la vita grama del povero veniva dimenticata e per qualche giorno si metteva il “mondo alla rovescia”.
Venezia diventava un grande palcoscenico aperto a tutti e, anche se per poco, persino i rapporti gerarchici tra governante e governato, tra padrone e servitore venivano sospesi o capovolti.
Il carnevale non poteva nemmeno venir interrotto: così che la morte del doge Paolo Renier, avvenuta attorno il 13 febbraio 1789, venne comunicata solo il 2 marzo seguente, al termine di tutti i festeggiamenti.
Le regole della Serenissima
Nella Venezia della Repubblica la festa era come un fiume in piena da cui tutti venivano trascinati quasi in un mondo irreale anche per l’uso della maschera, fabbricata dai “mascareri”, che sembra essere stato importato da Costantinopoli, nel 1204, dal doge Enrico Dandolo.
Ricchi e poveri, illustrissimi e diseredati, arsenalotti e pescatori, cristiani, ebrei, uomini e donne sotto il travestimento potevano diventare altre persone e magari salire le scale di Palazzo Ducale salutando il serenissimo Doge.
La maschera veniva portata durante il Carnevale, ma anche durante altre feste straordinarie, in pratica tutto l’anno, ed il Governo intervenne più volte a regolarne le modalità come nel 1339, quando fu proibito alle maschere di circolare di notte, mentre nel 1539 fu vietato portare armi e agli inizi del 1600 di entrare mascherati nei parlatoi delle monache e nelle chiese.
La “bauta” e i tori
Era molto usata la “bauta”, composta da una maschera nera o bianca che copriva la parte superiore del volto e da una specie di mantellina nera che, partendo da sotto il cappello a tricorno, arrivava fino alle spalle, mentre i popolani preferivano mascherarsi da Pantalone, Arlecchino, Brighella, da pagliaccio o da diavolo.
Il Giovedì grasso era il giorno che riscuoteva maggiore partecipazione pubblica.
Il Doge, accompagnato dai procuratori e dagli ambasciatori partecipava alle rappresentazioni che avvenivano in Piazzetta.
La Festa cominciava dal sacrificio del toro: allora arrivavano i “becheri”, macellai, trascinando tori ornati di nastri e di fiori, ricordo del tributo pagato nel 1164 dal patriarca di Aquileia, Ulrico, per la propria liberazione.
Scrive allora Giustina Renier Michiel, nobildonna e scrittrice veneziana, nipote di due Dogi, Paolo Renier e Luduvico Manin:«Ciò ch’eravi di più osservabile del popolo, ciò ch’eccitava per parte sua i maggiori gridi di gioia, gli applausi i più vivaci, era la destrezza di quello che decollava l’animale, la cui testa dovea cadere e rotolare sulla terra ad un sol colpo di sciabola, ed il ferro non doveva, malgrado la violenza del colpo, toccare il terreno».
Un acrobata dava luogo allo “Svo’lo dell’age’lo”, volo dell’angelo, scendendo su una corda che partiva dalla sommità del campanile di San Marco ed arrivava alla loggia di Palazzo Ducale, o ad una zattera ancorata in Bacino, gettando fiori al Doge e alla folla.
Un gruppo di arsenalotti eseguiva la “Moresca”, una danza di origine araba composta da movimenti ritmici sempre più veloci effettuati con bastoni detti “mele corte”.
Mentre Castellani e Nicolotti che normalmente durante l’anno si sfidavano a pugni su alcuni ponti, come il ponte dei pugni a San Barnaba, si contendevano nelle colonne o “forze d’Ercole”, un gioco di forza e di equilibrio nel quale, montando l’uno sull’altro, dovevano formare piramidi umane sempre più alte.
La festa terminava al tramonto con i “foghi per tera e per acqua” e a mezzanotte scendevano sulla Piazza i rintocchi della campana di San Marco e di San Francesco della Vigna che si protraevano per tre quarti d’ora.
Le maschere dovevano allora essere tolte. Cadeva un profondo silenzio e iniziava così l’austera e severa Quaresima.
Il Carnevale ebbe un momento di oscuramento dopo la caduta della Repubblica perché malvisto dagli austriaci e dai francesi, mentre la tradizione si conservava nelle isole di Murano e Burano.
Solo alla fine degli anni Settanta del XX secolo, per volere di alcuni cittadini e associazioni civiche, ci si impegnò a far rinascere il Carnevale che venne inaugurato ufficialmente nel 1979.
Nelle campagne
Anche nelle campagne del nostro territorio il Carnevale serviva a ravvivare la monotonia del mese di febbraio.
In tutto il Veneto esistevano le stesse usanze e le stesse bellissime tradizioni.
In ogni paese era festa grande il martedì grasso quando si andava a vedere la fantastica sfilata dei carri allegorici, in maschera con un vestitino fatto in casa e un pezzo di cartone colorato a coprire il viso, con un paio di buchi per naso e bocca, legato da un traballante elastico, ma era sempre un paradiso di colori, stelle filanti e coriandoli che facevano vivere quasi un sogno.
Vi erano anche delle regole da rispettare: non si poteva passare di casa in casa di lunedì, di mercoledì e di venerdì; non si poteva neanche andare in una casa dove si trovavano vedove o dove da meno di un anno era morto qualcuno.
Frìtole e Galani
Con le ore di buio che superano quelle della luce e le condizioni meteorologiche non certo favorevoli al buonumore è proprio per questo, forse, che le ricette tipiche del Carnevale sono particolarmente sostanziose, caloriche e molto gustose.
La settimana grassa aveva i suoi cibi fissi. C’era così il “venerdì gnocolaro”, “el sabo bigolaro”...
Ricordo mia mamma e le sue fritelle e galani, dolci di Carnevale, un’apoteosi di frittura, zuccheri e grassi, vera festa per il palato.
“Ea frìtola” da sempre “gustata” non solo da noi, ma anche nel territorio friulano e fino quasi alle porte di Milano.
A Venezia era prodotta esclusivamente dai “fritoleri”, che nel ‘600 si riunirono in una associazione composta da settanta persone, ognuno con una propria area, dove poteva esercitare in esclusiva la sua attività commerciale con la garanzia che gli potevano succedere solo i figli e el nobil Homo Venezian, Gasparo Moro-Lin, “no gavendo altro da far, se gaveva dedicato co passion e serietà all’arte culinaria e el gà lassà una ricetta de fritole veneziane che xe stada riportada anca su un libro del secolo passà”.



Galani


Dolce della tradizione veneta, in questo periodo, sono i “galani” o crostoli. A seconda della regione vengono chiamati in diverso modo: “chiacchere” in Lombardia, “bugie” in Piemonte e “cenci” in Toscana per esempio.
Nomi diversi per questi stessi deliziosi dolci che non sono altro che le antiche fritilia dei Romani, fatti con la stessa pasta delle lasagne e che venivano fritte nel grasso di maiale durante le feste di primavera.

INGREDIENTI

500 g di farina di frumento -5 tuorli d’uovo - 90 g di zucchero semolato - 50 g di burro - 1 bustina di vanillina - 2 cucchiaia di grappa bianca - Abbondante olio di girasole - Zucchero a velo q.b - Un pizzico di sale - 1 buccia di limone grattugiata
PREPARAZIONE
1 Faccio fondere il burro in un pentolino.
2 Verso la farina sulla spianatoia ammucchiadola e faccio un buco nel mezzo dove verso le uova, la grappa, il burro fuso, la vanillina, la buccia del limone grattata e un pizzico di sale.
2 Amalgamo il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo.
3 Formo con la pasta una palla che avvolgo con una pellicola trasparente per alimenti e lascio riposare per circa un’ ora.
4 Trascorso questo tempo, con l’aiuto di un mattarello o dell’apposita macchinetta, stendo una sfoglia sottile e la ritaglio con la rotella in rettangoli irregolari.
5 Verso l’olio in una padella dai bordi alti, lo faccio riscaldare e quando è caldo tuffo dentro i galani e li friggo fino a che risulteranno dorati e avranno formato in superficie alcune bollicine.
6 Li tolgo dall’olio con una schiumarola e sgocciolati li sistemo su un foglio di carta assorbente per far perdere l’olio in eccesso.
7 Per ultimo li spolvero con lo zucchero a velo e li servo caldi o freddi facendo attenzione a non romperli perché fragilissimi.
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