Il riso

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(Fata.)
00sabato 5 novembre 2011 14:04
“Un sorriso giallo”
Il “risotto alla milanese”, forse il più famoso tra i risotti gialli, ha una storia che s’intreccia strettamente con quella della risicoltura nella Pianura Padana. E, va da sé, anche con quella dello zafferano che gli conferisce l’inconfondibile colore ed è giunto fino a noi dall’Oriente seguendo in parte la stessa strada del riso.




Il felice connubio tra questi due elementi risalirebbe ad una data ben precisa, legata ad una vicenda sviluppatasi nell’ambiente della “Fabbrica del Duomo” di Milano. La decisione di dotare la cattedrale di grandi vetrate aveva richiamato nella città lombarda uno stuolo di artisti. Fra questi c’era il fiammingo Valferio Perfunavalle, di Lovanio, che tra gli altri colori intensi utilizzava lo zafferano per dare brillanti toni di giallo alle vetrate (a lui si devono, fra il 1572 e il 1576, quelle dedicate alla vita di S. Giuseppe, alla storia di S. Martino e alla presentazione della Vergine).


Costui aveva una figlia, la pittrice Prudenzia, che si sposò nel 1574. Ed è a questo punto che entra in ballo il risotto alla milanese. Vale a dire il risotto, squillante di giallo come certe stupende vetrate, che si videro servire i commensali al pranzo di nozze.


Cos’era accaduto? Null’altro che uno scherzo, magari un po’ stupido, ma certo saporito! Già, perché - con successiva soddisfazione di tutti i presenti e di non pochi posteri - un aiutante di Mastro Valerio, non per caso soprannominato “Zafferano”, aveva convinto il cuoco a trasferire l’impiego del croco dai ponteggi del Duomo alla cucina...



Un’inesauribile varietà
Il discorso non si esaurisce, però, con i pur innumerevoli “primi” asciutti o in brodo che sono vanto della tradizione gastronomica nostrana. Può, anzi, allargarsi in un’ampia panoramica che abbraccia uno scenario tanto mutevole quanto gustoso. Sì, perché il riso può essere cucinato in tanti altri modi: si accompagna ad ogni piatto o verdura, può fungere da “contorno”, può qualche volta sostituire il pane.


Si presta insomma alle preparazioni culinarie più varie e saporite: dall’antipasto al dolce, non resta che sbizzarrirsi. Con risotti e minestre d’ogni tipo, certo; ma pure con grandi insalate policrome in cui mettere tutto ciò che la fantasia suggerisce, con timballi, con verdure ripiene (già Vincenzo Corrado, nel 1778, nel suo “Cuoco galante” descrive i “pomodori farsiti al riso”), con frittelle, con budini...


Ogni tanto, i più abili fra i cuochi dilettanti possono cimentarsi con qualche piatto particolare, di quelli che andrebbero inseriti senza indugio nell’elenco dei peccati di gola: come gli “arancini” (sono una saporita specialità siciliana, una specie di grosse crocchette rotonde a base di riso impastato con carni, piselli, formaggio e salsa di pomodoro, che si fanno friggere in olio bollente) o il già citato “sartù” napoletano (un sontuoso soufflé di riso ricco d’una infinità di ingredienti).


Senza contare che anche in campo gastronomico è lecito “copiare” il meglio, e allora il repertorio nostrano può impadronirsi dei frutti d’appropriate e pacifiche incursioni nelle cucine d’oltre confine. Tanto in Occidente quanto nelle regioni asiatiche, culla del riso (diventato la loro maggiore risorsa agricola), dove resti d’antiche piantagioni risalenti al VIo-Vo millennio a.C. testimoniano ad esempio che in Cina e in India il bianco cereale è diffuso e consumato da tempo immemorabile.


Due suggestive leggende orientali
Alle mille virtù dietetiche e terapeutiche del riso accenniamo nella rubrica dedicata alla salute, dando “la parola ai dietologi”. Qui, diremo soltanto che non c’è motivo di stupirsi se attorno a questo prodotto considerato sacro sono scaturiti in Oriente usi e costumi tuttora vivi. E anche modi di esprimersi che resistono al trascorrere dei secoli: ancor oggi per i cinesi il pasto è «l’ora del riso», e nella loro lingua il nostro “Come va?” suona «Avete mangiato riso?». Un saluto affettuoso e augurale che non si nega a nessuno...


Non può stupire nemmeno il fatto che i popoli orientali, per i quali il riso continua a rappresentare ciò che per noi è il pane, se non anche il companatico..., abbiano tramandato generazione dopo generazione tante leggende secondo le quali il riso è un dono d’amore fatto da un dio agli uomini. Ne riassumiamo un paio, particolarmente suggestive.


Una, cinese e antichissima, narra che di fronte all’ennesima terribile carestia il Buon Genio della campagna, impotente e disperato perché non sapeva come sfamare il suo popolo, si strappò i denti e li gettò al vento. Finirono in una palude, dove si trasformarono in semi. E i semi diventarono tante piantine verdi, i cui frutti (tolta la buccia) erano migliaia e migliaia di chicchi di riso che per il loro candore rievocavano i denti dello spirito benefico. Così sarebbe nato, secondo i cinesi, il prezioso cibo che da allora non ha smesso di consolare le loro mense. E quelle di tutto l’Oriente, del resto...


Un’altra leggenda vuole invece che il riso sia una pianta indiana, «senza madre né padre» perché nata non da un seme ma da un prodigio d’origine divina. C’era una volta, nella notte dei tempi, una bellissima e buona fanciulla che si chiamava Retna Doumila ovvero Gioia Raggiante.


Se ne innamorò follemente il dio Shiwa (una delle maggiori divinità dell’induismo) che, sensibile al fascino femminile non meno dello Zeus degli antichi Greci, era ben deciso a sposarla e renderla immortale. La bella Retna non voleva saperne, ma la corte del dio si fece così pressante che ad un certo punto, tanto per guadagnare tempo, lei acconsentì alle nozze. Richiese, però, un dono speciale: avrebbe sposato Shiwa se questi avesse creato, prima, un «cibo buono e nutriente che non sarebbe mai venuto a noia alla gente».


Che cosa fece, allora, il dio Shiwa? Inviò sulla terra un messaggero, incaricandolo di far ricerche in proposito. Purtroppo l’inviato, a sua volta preda di perfide donne ed irresistibili amori, non riservò eccessivo zelo al compito affidatogli. Ci furono complicati intrecci e lunghi ritardi (come in qualsiasi storia orientale che si rispetti), fatto sta che in sostanza il servo di Shiwa si dimenticò dell’incarico e non volle più tornare fra gli dei.


Infuriato per la piega presa dagli avvenimenti, l’impaziente ed orgoglioso Shiwa prese Reina con la forza. Per la vergogna e l’oltraggio subito, Reina si tolse la vita gettandosi nel fiume. Quaranta giorni dopo la sua morte, sulla tomba in riva al Gange spuntò un’esile pianticella dalla quale pendevano chicchi bianco-dorati: era l’anima della fanciulla che fioriva.


Un’altra versione della leggenda propone un finale un tantino diverso. Qui si vede Shiwa, tristissimo per la morte dell’amata, cogliere su una lontana stella dell’Universo una pianticella sconosciuta. In segno d’omaggio la pone sulla tomba della ragazza, dove la pianticella bagnata dalle lacrime del suo immenso dolore si moltiplica rapidamente e riempie tutti i campi circostanti.


In entrambi i casi, però, c’è una sola indicazione conclusiva: «in questa pianta è chiusa l’allegria della bella Retna, ed io la chiamerò riso», disse il pentito Shiwa, che la distribuì agli uomini per vincere la loro fame. E, proprio come Retna aveva desiderato, il cereale non venne mai a noia.


kamo58
00sabato 5 novembre 2011 19:44
Quante cose sul riso! La storia del colore giallo del risotto alla milanese, la conoscevo ma non conoscevo i detti e le leggende orientali.
Bello!!! [SM=g7332]
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