La gastronomia di strada Viaggio a Palermo

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(Fata.)
00sabato 26 novembre 2011 09:07
La popolare cucina di strada palermitana, gestita anticamente dai “buffittieri”, dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti che serviti su un ripiano, spesso improvvisato, dove si vendono per la strada.

Considerata la più antica e ineguagliabile cucina, perdurata nel tempo, grazie al gusto dei palermitani di secoli fa tramandato come retaggio a quelli di oggi.

Adoperata nelle città greche siciliane, ben presto si diffuse in tutta l’isola, già 2.500 anni fa si vendevano nel “thermopolium” verdure bollite, assieme a interiora bollite o arrostite sulla brace, ciarpami di carne e pesce fritto, che si poteva mangiare sul posto o portare a casa, oggi diremmo che questo genere di asporto si possa riferire al moderno fast-food alla palermitana.

In tempi più ravvicinati e fino a qualche anno fa persisteva la “tavola calda” che c’è la tramandarono gli arabi.

Ormai radicata in tutta la città, questi cibi si possono gustare in vari luoghi distribuiti percorrendo le sue vie in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani (Ballarò, Capo, Vucciria e Borgo).

La “pastella” è una pasta di farina un po' molliccia ottenuta frustando la farina con l’acqua in abbondanza aggiungendo una presa di sale e una parte di lievito, lasciata a riposare per un certo periodo di tempo, (almeno un’ora) dopodiché si immergeranno delle verdure che “metteranno la camicia”, cioè un sottile velo di pasta, solitamente broccoli (cavolfiore), carciofi (cuore) e cardoni (cardi) che immersi in una padella con olio caldo verranno fritti.

Specialità queste che vengono vendute nelle friggitorie stanziali o improvvisate, un’altra pietanza simbolo della cucina di strada è il “pani e panelle”, quest’ultimi una sorta di “schiacciata” di piccole dimensioni, di un bel colore dorato di farina di ceci.



Associate alle panelle più delle volte ci si immettono le “crocchè” comunemente conosciuti dai palermitani come “cazzilli”, richiamandosi alla loro forma fallica.

Realizzate con purea di patate “viecchi” vengono fritti con abbondante olio caldo, hanno un gusto particolare che gli viene dato dall’associazione di una manciata di prezzemolo o mentuccia nella purea.





Nasce dalla farina di grano, un pane speciale “lo sfincione”, grossa sfoglia di pasta lievitata con uno spessore abbastanza ragguardevole, condita con salsa di pomodoro con l’aggiunta di cipolla, pezzettini di acciughe e caciocavallo a scaglie, il cui nome con molta probabilità deriva dal greco “sponghia” (spugna) per la sua morbidezza.



Un denso fumo che si eleva da una griglia, un odore piccante e stregante, richiama i frequentatori di uno strano individuo “ù stigghiularu”, li ad armeggiare con una bottiglia che cosparge acqua per attenuare il fuoco, uno spiedino ha qualcosa infilzato a mò di serpente è la “stigghiola”, interiora di vitello intrecciate con cipolla scalogno che li rendono uniti e li profumano.

La loro cottura è un’arte, esse non devono perdere il preziosissimo grasso interno che il fuoco fonde e lo rende cremoso, e non debbono essere bruciate, l’abbrustolimento deve essere dolce e lento.

Alla fine staccata dallo spiedo con maestria verrà tagliata a pezzi è gustata con una manciata di sale e limone in abbondanza, e messa in un piattino di alluminio.

Quella di cucinare alla brace per i palermitani è una grande passione, e la grigliata appartiene ai giorni di festa che casualmente si presentano con il periodo della primavera e con le belle giornate all’aria aperta, la stigghiola è un avvezzo per non perdere questo piacere.

Le stesse interiora di vitello, pulite con acqua e sale, tagliate a pezzi e messi a bollire in pentola, appartengono alla famiglia della ”quarume” o caldume che, servite calde e brodose, danno un piacevole ristoro.

U’ quarumaru si procura le “frattaglie” al mattatoio dove acquistano una prima pulitura con acqua e sale per poi procedere ad una pre-bollitura.

Una volta aveva bottega nei mercati e nei quartieri popolari e nella sua insegna di bottega c’era scritto “Brodo e pietanza”, in questo luogo definiva meglio la preparazione, il bancone era apparecchiato fuori “a putia” e, in un angolo una grossa pentola piena d’acqua conteneva la caldume: ziniero, centopelle, matruzza, corata e quagliaru, tutte parti diverse delle viscere del vitello, aromatizzate con l’aggiunta di carote, sedani, cipolle, pomodori, sale quanto basta e foglie di alloro, questo era il corredo tradizionale per creare il brodo, c’era chi in più gli metteva anche le patate.

Alla domanda da parte degli avventori, il quarumaru, estraeva una piccola parte di ogni pezzo e la tagliava nel tagliere servendola in un piatto, a richiesta gli veniva servito il brodo in una scodella, vecchio e consolante dispensa per i mesi umidi e gelidi.

Il terzo gruppo che suddivide questo escursus gastronomico racchiude i prodotti del mare ed in particolare i molluschi.

Per la strada e nelle zone marinare (Mondello, Sferracavallo e Romagnolo) e facile incontrare in modo particolare i “purpari” cioè il venditore di polpo bollito.

Il loro bancone, sempre lindo, quasi maniacale è il loro gesto, accompagnato da una spugna che lo travolge inconsapevolmente, è apparecchiato con grandi piatti di ceramica, da una ampia pentola piena d’acqua di mare resa incontaminata (una volta era di creta e molto panciuta) tira fuori un discreto polpo (majulino) bollito, i suoi tentacoli tagliati a pezzetti verranno serviti sul bianco ceramico piatto con succo di limone.

A richiesta gli avventori degustano la “testa”, tagliata a metà e privata da una ghiandola che la renderebbe amara per il suo contenuto, si gusta il suo bagaglio recondito.

I venditori di frutti di mare nei loro deschetti offrono ricci, ostriche, cozze (mitili) e “muccuni”, consumati a crudo con l’aggiunta a piacere di succo di limone, secondo consuetudini popolari, chi preferisce assaporarli scottati si rivolgerà a cozze e muccuni che portati bolliti si potranno gustare con limone e a volte con una spolverata di pepe.

Il venditore, fornito con un grosso guanto, per non pungersi dalla presenza degli aculei del riccio, lo taglierà in due parti e lo presenterà su un piatto che crudo sarà gustato accompagnato da un scampolo di pane (mafalda), l’avventore ne estrarrà la parte più succulenta, quella rossastra, venduti a piattini, il loro contenuto è di una dozzina.

Siamo alla fine del nostro modesto viaggio gastronomico e possiamo constatare che questo particolare tipo di cibo, derivato dai dominatori arabi, ebraici e spagnoli, vecchio di secoli, non conosce crisi: avendo superato anche le rigide limitazioni delle norme igieniche, ha saputo contrastare l’avvento di moderne strutture dove si può consumare un pasto veloce (fast-food) e, le mode salutiste ed a resistito a tutto oggi alla cultura del presente, fiore all’occhiello del buon gusto ma anche dell’arte di arrangiarsi.

Ciò che è stato narrato, pur con dovizia di particolari storici, non può né potrà mai sostituire l’esperienza diretta: al viaggiatore raccomandiamo quindi di soffermarsi davanti ad una friggitoria, prima di acquistare il “pane con le panelle”, per assaporare gli intensi profumi dei vari ingredienti. Poi assaggi. Il gusto “unico” della panella solleciterà le sue papille gustative come non mai. Degustandola, provi a guardarsi attorno… i palazzi… le chiese… la storia, gli sembrerà di farne parte ...



Panelle


Gr. 500 di farina di ceci. Un litro d'acqua, sale e pepe.

Sciogliere a freddo in una pentola antiaderente la farina di ceci, facendo attenzione ad evitare grumi. Aggiungete sale e pepe.

Passate sul fuoco a fiamma bassa, rimescolando con un cucchiaio di legno finché il composto non si staccherà dal fondo, e comunque massimo 15 minuti. Versate su un marmo bagnato e spianate con un coltello fino a rendere l'impasto sottile (5 millimetri o poco più) e regolare.

Quando sarà freddo, tagliate a rettangoli (max cm. 5x10). Friggete in padella con olio di semi (appena dorate da ambo i lati, mai scure) e servite calde con un pizzico ulteriore di sale. Nel frattempo, fate sparire il pane dalla tavola. Le panelle sono una delizia della cucina mediterranea.



kamo58
00sabato 26 novembre 2011 16:02
Bello questo argomento e poi adoro le panelle, le mangio sempre in una pizzeria che fa piatti siciliani. Devo imparare a farle. Quante lacune da colmare [SM=x2715887]
(Fata.)
00sabato 26 novembre 2011 16:33
Palermo è stupenda.
Visono stata in visita e vi sono rimasta per 4 mesi.
Ho assaporato il cibo di strada andando ai due mercati O Capo e Vucciria,
mi ingozzavo di panelle
(Fata.)
00domenica 1 gennaio 2012 14:21
La Vucciria di Renato Guttuso è un’istantanea.
Una scena quotidiana, ma intrisa di un sapore arcaico, fissata dal pittore in uno scorcio che pare ripreso con un teleobiettivo.

È un’esplosione di colore, una prospettiva schiacciata attorno al passaggio strettissimo fra i banchetti ingombri di ogni merce.
Teste di pescespada, pomodori, un bue squartato appeso ai ganci mentre il macellaio ne lavora le carni, mozzarelle e olive sottovetro.

Cardi e cipolle offerti allo sguardo dei passanti. Sotto le luci di alcune lampade che rischiarano quell’andito fiabesco e spaventoso, alcune donne si attardano a scegliere i formaggi migliori, altre già tornano verso casa con braccia e mani ingombre dei sacchetti di plastica colorata.
Al centro della scena, un possibile incontro.

Quello fra la donna ripresa di spalle che risale la via abbigliata di un semplice vestito bianco, e un giovane uomo, dolcevita giallo e giacca marrone, che sta invece scendendo nel senso opposto, mostrando a lei e a noi che guardiamo il quadro, il suo volto.

Le pennellate energiche di Guttuso hanno saputo cogliere l’epica di un momento e restituirne tutto il valore di archetipo: è la Vucciria, il mercato all’aperto più famoso di Palermo, e solo lì può accadere tutto quel che Guttuso ha saputo raccontare nel suo quadro.



(Il quadro di Guttuso)

Un altro siciliano illustre, Andrea Camilleri, ispirato da quel quadro famoso, ha immaginato a modo suo quel che avrebbe potuto precedere quell’attimo fatale in cui Anna e Antonello (questi i nomi che ha immaginato per i due) incrociano i loro sguardi.

È un racconto brevissimo, ma denso ed evocativo, e Camilleri sceglie di alternare il passo cronachistico dei pensieri di Anna mentre fa la spesa prima di tornare a casa da suo marito Peppe, ai verbali di un interrogatorio cui la Santa Inquisizione sottopose un’altra Anna, accusata di stregoneria per aver “costretto a congressi carnali” alcuni commercianti della Vucciria, nel milleseicentocinque.
Come a dire: ecco, sono cambiati i tempi, e nessuna Santa Inquisizione può più processare una donna per adulterio o per la sua condotta con gli uomini, ma i semi antichi della persecuzione e della prevaricazione dell’uomo sulla donna sono pronti a germogliare e mettere i loro frutti velenosi in ogni momento.

Al racconto, intitolato “La ripetizione” e condotto nel serratissimo vernacolo siciliano cui lo scrittore di Montalbano ci ha abituati, segue una rievocazione fatta dallo stesso Camilleri degli anni in cui era studente a Palermo, e frequentava certi luoghi della Vucciria. È un semplice aneddoto, ma nelle mani di Camilleri ogni episodio di vita vissuta trasfigura immediatamente i propri contorni e si ammanta di una potenza narrativa irresistibile.
Nel libro c’è poi un apparato iconografico di buona qualità, anche se commisurata al formato (piccolo) di questa bella collana edita da Skira, e un saggio di Fabio Carapezza Guttuso, unico figlio adottivo del maestro e fondatore degli archivi a lui intitolati, sulla genesi e le fortune critiche del quadro dipinto nel 1974 dal padre.

Andrea Camilleri – La vucciria. Renato Guttuso
...Lo scrittore entra nel quadro per tirare fuori la donna tornita con i sacchetti di plastica in mano, che lui chiama Anna, e l' uomo con il maglione a girocollo giallo e la giacca marrone, Antonello, che le sta di fronte. Sguinzaglia, nel racconto "La ripetizione", i due personaggi nel cuore pulsante del mercato e fa loro vivere una intensa "liason" d' amore brancatiana. Una sensualità che esplode nelle loro anime e che non si capisce se alla fine se ne appagheranno anche i corpi.
kamo58
00domenica 1 gennaio 2012 14:32
Bellissimo questo post. Non conoscevo nè il quadro nè il racconto di Camilleri che cercherò di procurarmi. Adoro come scrive, quella sua ironia e quel mettere in evidenza così bene il modo di sentire e vivere della sua terra.
Ho imparato molti termini dialettali siciliani, proprio leggendo Camilleri.
(Fata.)
00mercoledì 4 gennaio 2012 21:16
Le caldarroste


Ai primi freddi, a Palermo ad ogni angolo di strada in una grande nuvola di fumo bianco che si alza verso il cielo si vede confusamente una fornacella cilindrica alla cui base è accesso un fuoco vivo, alla sua estremità uno strano coperchio che funge da pentola la chiude e fa elevare un intensa foschia dovuta alla presenza del sale.
Gli staziona davanti un deschetto multicolore con gli elementi cromatici del rappresentativi del carretto tipiche nella sua concezione
***

Il bianco, il blu, il verde, il giallo e il rosso, dividono i quadri chiamati “scacchi” che tingono gli spazi del deschetto dove sono contenuti le caldarroste tipiche palermitane sotto la protezione di una immagine di San Giuseppe o dalla Santa patrona Rosalia, rischiarati da una lucerna a gas o da una lampada alimentata da una accumulatore elettrico.

Tutto ciò serve a richiamare l’attenzione di quei avventori che non sanno rinunciare a semplici prelibatezze come l’umile castagna dalla buccia marrone, gli acheni commestibili di un riccio spinoso, rendendola protagonista di un momento particolare quale è il freddo che per Palermo e quasi un’utopia.



Impacchettati in un cartoccio “cuppitedda” ( “coppo” involucro cartaceo che anticamente serviva per racchiuderne i rifiuti di vario genere) l’avventore si sforzerà di portarli a casa, ma è tale la sua abitudine di mangiare per strada, che li scartoccia per assaporarli durante la consuetudine “passiata” festiva o giornaliera.

Preparati con dovizia dal venditore che ne sceglie la qualità migliore, ne inciderà con un coltello la buccia trasversalmente affinché a contatto con il fuoco non scoppino, ma si aprirà e cuocerà l’interno lasciando la scorza da un alone argenteo dovuto alla vaporazione del sale immerso copiosamente dalla mano esperta del venditore “u’ castagnaru” durante la cottura nel fuoco ardente, attraverso il rudimentale pentolone.

Egli di tanto in tanto scuote questo artigianale recipiente di ferro cilindrico col fondo costellato di fessure realizzate con la saldatura di barrette di ferro di piccole dimensioni tali da non far passare le castagne, ma bensì il fuoco che le renderà abbrustoliti.

Questa particolare fornacella costruita appositamente dagli artigiani palermitani, da sempre si è potuta acquistare nella rinomata via calderai dove gli artefici del luogo fabbricano ispirandosi ad ideazione prettamente di natura musulmana, che tali popoli usano nei loro suk per abbrustolire determinati prodotti della terra.
Costituita essenzialmente da tre elementi, la prima è costituita dalla fornace rudimento indispensabile dove avviene la combustione con del carbone fossile (coke) ad alto potere calorifero dalla consistenza dura e porosa.

La seconda parte è composta da un lungo tubo in cui si produce il calore che si trasmetterà alla speciale casseruola ultimo degli elementi dove si arrostisce l’elemento desiderato.
Da questa corrispondenza, fuoco e castagna scaturisce la buonissima caldarrosta, aperta si intravede il suo interno biondo in un involucro argenteo.



Non sono di meno le località dei Nebrodi e dalle pendici dell’Etna dove vi sono grandi distese di castagneti, che compongono nientemeno che una vegetazione secolare, se non millenari.



In questi territori, un tempo infatti, il castagno e la cultura dei suoi frutti era fondamentale nell’alimentazione e nell’utilizzo del suo pregiato legname di cui si ricavavano ragguardevoli mobili di uso comune e rappresentativi per l’abitazione, ne sono un valido esempio di considerevoli stanze da letto e di importanti scrittoi per professionisti.

***

“A’ castagna” al femminile, per i palermitani è intesa sia la pianta (il castagno) che il frutto (la castagna), quest’ultima spogliata dal rivestimento e tolta la pellicina è fatta essiccare, quindi si trasforma in “cruzzitedda” è viene utilizzata per alcune caratteristiche minestre invernali, dove compaiono anche i legumi, non cotta e disseccata, comunemente si accompagna al famigerato “scaccio” dove sono presenti anche “calia e simienza”(ceci tostati e semi di zucca).

Una vera ghiottoneria anticamente era rappresentata dalla vendita degli “allessi” calde (caldallessa), un piccolo deschetto con un pentolone fumante, in un cuppittieddu’ di carta “oleata” venivano serviti un miscuglio di castagne secche, fichi e carrube lessate, inoltre gli avventori bevevano anche il brodo (u’bruoru dà allessi).

(Fata.)
00giovedì 5 gennaio 2012 17:55

Tra i cibi di strada più amati dai palermitani che d’estate si dilettano a frequentare le zone marinare vicine alla città, uno tra i più amati e il polpo bollito qui detto “purpu vugghiuto”.

Nella piazzetta di Mondello si trovavano tantissime bancarelle dei purpari, dove veniva venduta questa delizia del mare.

Bisogna ammettere che le bancarelle in lamiera erano veramente bruttine, però avevano un fascino tutto particolare, popolare, ed erano un motivo di attrazione per i palermitani, ma anche per i turisti colpiti da tanto folklore.

Per quanto riguarda la questione igienica, i palermitani non avrebbero avuto troppi problemi, visto lo stomaco immunizzato da tutto, grazie ad anni di allenamento ai cibi più bizzarri, più pesanti e ai luoghi non sempre puliti...
certo per i turisti meno abituati poteva essere più rischioso, una vera “prova di coraggio”, anche se devo dire che mai ho sentito dire di gente che ha avuto problemi col nostro cibo, col Mac Donald si!

Ritornando ai purpari di Mondello, alcuni di questi si sono trasferiti all’interno dei ristorantini, per continuare la loro storica attività.

Il polpo bollito si può trovare anche a Sferracavallo (insieme ai ricci e alle cozze),



I polpi venivano bolliti in pentoloni (i più tradizionali in creta) colmi di acqua di mare, e poi serviti su piatti di ceramica accompagnati solo da una spruzzatina di limone. C’era tutta una ritualità nel cucinarli e nel servirli, e una grande competenza nello scegliere i più teneri (le femmine) o i più pregiati (i maiolini).

Per cuocere il polpo c’è un “segreto” da sapere, bisogna far bollire l’acqua (salata abbondantemente, visto che non è poi così agevole usare direttamente quella del mare...), e immergere il polpo (precedentemente lavato) tenendolo per la testa (che poi è lo stomaco), per ben tre volte, calandolo e uscendolo dall’acqua.
Questo trucco credo serva per un motivo esclusivamente estetico, per far arricciare i tentacoli “ le granfe” verso l’alto, ma nessun palermitano si permetterebbe di fare diversamente.

Quando l’acqua riprende a bollire, si calcolano dieci minuti (tenendo il coperchio della pentola semichiuso), poi si spegne il fuoco e si fa rimanere il polpo nell’acqua calda per almeno un’ora, così verrà sicuramente tenero, o almeno lo spero, perchè anche quella del purparo è una vera arte!

I veri amatori lo mangeranno solo con l’aggiunta del succo del limone, ma è ottimo anche all’insalata, tagliato a pezzetti (svuotando la testa, anche se c’è chi ama mangiarne il contenuto dal colore poco invitante) e condito semplicemente con olio, limone e prezzemolo fresco.

Ricetta: “I polipetti murati”

Bisogna però distinguere tra il polpo che viene mangiato semplicemente “vugghiutu” (bollito) ed i polipetti da “murare”, se nel primo caso infatti si usa il maiolino (non so se è un termine dialettale o meno, a voi lettori non siciliani svelare l’arcano), che si riconosce perchè ha in ogni tentacolo due file di ventose (parallele), nel caso dei polipetti murati si utilizzeranno prevalentemente i moscardini che hanno una sola fila di ventose, sono di colore bruno, e vengono anche chiamati “agostiniani”, probabilmente perchè il periodo migliore per pescarli della giusta taglia (piccola) è il mese di Agosto.


Ingredienti: 1 kg di polipetti, 1 cipolla grossa, olio evo, prezzemolo, 400gr di polpa di pomodori pelati, una noce di burro, 1 bicchiere di vino bianco, sale e pepe.

Preparazione: pulire bene i polipetti togliendo occhi e becco. Affettare la cipolla e farla imbiondire con una noce di burro e dell’olio evo, aggiungere un bicchiere di vino e far evaporare. Versare il pomodoro pelato (a pezzi), prezzemolo, sale e pepe. Non appena bolle versare i polipetti e chiudere il coperchio, tenere la fiamma alta, appena dal rumore si percepisce che ribolle, aprire il coperchio e mescolare, a questo punto chiudere il coperchio e far cuocere a fuoco medio basso per 15 minuti circa, senza mai aprire ne mescolare.
Mangiare accompagnando con tanto pane!
Se dovesse rimanere del condimento, cucinare gli spaghetti, scolarli due minuti prima del tempo di cottura e far finire di cuocere nella zuppa, il risultato è assicurato!



Fonte AGAVE PALERMO BLOG
kamo58
00lunedì 16 gennaio 2012 15:36
U pani c'a meusa, italianizzato in "il pane con la milza", è un esempio di tradizione gastronomica siciliana nel campo del cosiddetto "cibo da strada". La pronuncia corretta in palermitano sarebbe "pani c'a miévusa" con un allungamento della sillaba "ie".

Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, brevemente soffritti nella sugna. Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos'altro) oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).

Il meusaru si serve di un'attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all'interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall'olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch'essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all'avventore, in carta da pane.

La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria. I più famosi sono l'Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834, il cui proprietario ha fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita, denunciando i suoi estorsori mafiosi[1][2], L'Antica Focacceria di Porta Carbone, la Famiglia Basile nel mercato della Vucciria, "Nni Franco u Vastiddaru" in Corso Vittorio Emanuele (angolo Piazza Marina), l'antico e caratteristico "Piddu Messina" nel corso Alberto Amedeo adiacente all'antico mercato del "Capo". Infine, più recente, Nino u ballerino in Corso Aprile Finocchiaro (già Corso Olivuzza).

L'origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non potendo percepire denaro per fede religiosa per il proprio lavoro, trattenevano come ricompensa le interiora che rivendevano come farcitura insieme a pane e formaggio. Cacciati da Ferdinando II di Aragona detto il Cattolico, questa attività venne continuata dai caciottari palermitani. In realtà, il consumo di interiora, particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione da parte del popolo.

A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille), la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l'aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.
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