Pellegrino Artusi

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kamo58
00lunedì 20 giugno 2011 16:33
Pellegrino Artusi, autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene“, nacque a Forlimpopoli il 4 agosto 1820, da Teresa Giunchi e Agostino. Dopo gli studi al Seminario di Bertinoro, cominciò ad occuparsi degli affari paterni.

A segnare una svolta nella vita del giovane Pellegrino e della sua famiglia fu la famosa incursione del Passatore a Forlimpopoli, il 25 gennaio 1851. Nella stessa notte in cui fece irruzione nel teatro cittadino, la banda del celebre brigante con un sotterfugio, riuscì a entrare nella casa del futuro gastronomo e fare man bassa di denaro e oggetti preziosi. Il colpo banditesco, al di là del danno economico, segnò profondamente la famiglia Artusi: Gertrude, una delle sorelle di Pellegrino, per lo spavento impazzì e fu internata in manicomio.

Il salotto di casa della famiglia Artusi

Nello stesso anno la famiglia Artusi lasciò Forlimpopoli e si trasferì a Firenze, dove Pellegrino, poco più che trentenne, si dedicò, con un certo successo, all’attività commerciale. Artusi continuò a vivere in Toscana dove morì nel 1911 a 91 anni, ma mantenne sempre vivi i rapporti con la città natale.

Artusi godette di una vita agiata, senza mai perdere di vista le sue passioni per la letteratura e la cucina. Quando Firenze divenne capitale (1865) Artusi cambiò casa e si ritirò a vita privata, dedicandosi a tempo pieno ai suoi interessi culturali, scrivendo prima una biografia di Foscolo e poi “Osservazioni in appendice a 30 lettere del Giusti“. Entrambi i libri furono pubblicati a sue spese, senza grande successo, quel successo che sarebbe arrivato con “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene“, pubblicato nel 1891 a spese dell’autore “pei tipi dell’editore Landi“. Prima edizione: 1.000 copie.


Animato dagli ideali borghesi di decoro, moderazione e buon gusto, ebbe il grande merito di imporre, per la prima volta, una visione unitaria ed economica della cucina italiana e la sua importanza è indiscutibile.
Selezionando dal ricchissimo patrimonio gastronomico delle varie regioni e dalla produzione libresca del passato, Artusi propose un modello di cucina nazionale che incontrò il favore del pubblico e che si impose alla lunga come punto di riferimento obbligato.
Il progetto artusiano si sviluppa secondo un tracciato i cui punti fissi ancora oggi tutti noi riconosciamo: i crostini di fegatini di pollo, gli spaghetti col pomodoro, gli gnocchi, il risotto alla milanese, il vitello tonnato, le scaloppine al marsala, le crostate di frutta e la zuppa inglese sono alcuni dei piatti che Artusi riuscì ad imporre dal Piemonte alla Sicilia come “piatti nazionali”.
In particolare fu proprio Artusi a canonizzare il binomio “pasta-salsa di pomodoro”: prima di lui, infatti, in nessun altro manuale di cucina si trova quello che sarebbe diventato il piatto simbolo della cucina italiana – si vedano la ricetta 86, “Maccheroni alla napoletana II” e la numero 6, “Sugo di pomodoro”.

Artusi diede una patria gastronomica alle classi medie. Ancora all’epoca della prima edizione, l’unificazione del paese era più virtuale che effettiva: in pochissimi parlavano italiano, gli infiniti particolarismi regionali e l’acceso campanilismo vanificavano gli sforzi unificatori dell’amministrazione sabauda.

"La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi venne pubblicato per la prima volta nel 1891, a spese dell’autore.
Il libro di quell’agiato ma sconosciuto settantunenne, gastronomo per passione, banchiere a riposo, non aveva convinto nessuna casa editrice.
C’era stata sì un offerta di pubblicazione, ma a condizioni così umilianti, che Artusi, incandescente, dice lui, decise di rischiare del suo.
Nel giro di vent’anni si susseguirono altre quattordici edizioni curate dall’autore: il successo del libro fu graduale ma travolgente.
Quando Artusi morì nel 1911, il suo nome era già diventato sinonimo di eccellenza gastronomica.

Piero Camporesi nell’introduzione alla “Scienza in cucina” (Einaudi, 1991) dice che il manuale artusiano, assieme al “Pinocchio” di Collodi e al “Cuore” di De Amicis, è uno dei capisaldi della cultura italiana ottocentesca.
Animato dagli ideali borghesi di decoro, moderazione e buon gusto, ebbe il grande merito di imporre, per la prima volta, una visione unitaria ed economica della cucina italiana e la sua importanza è indiscutibile.
Selezionando dal ricchissimo patrimonio gastronomico delle varie regioni e dalla produzione libresca del passato, Artusi propose un modello di cucina nazionale che incontrò il favore del pubblico e che si impose alla lunga come punto di riferimento obbligato.
Il progetto artusiano si sviluppa secondo un tracciato i cui punti fissi ancora oggi tutti noi riconosciamo: i crostini di fegatini di pollo, gli spaghetti col pomodoro, gli gnocchi, il risotto alla milanese, il vitello tonnato, le scaloppine al marsala, le crostate di frutta e la zuppa inglese sono alcuni dei piatti che Artusi riuscì ad imporre dal Piemonte alla Sicilia come “piatti nazionali”.
In particolare fu proprio Artusi a canonizzare il binomio “pasta-salsa di pomodoro”: prima di lui, infatti, in nessun altro manuale di cucina si trova quello che sarebbe diventato il piatto simbolo della cucina italiana – si vedano la ricetta 86, “Maccheroni alla napoletana II” e la numero 6, “Sugo di pomodoro”.

Una patria gastronomica

Artusi diede una patria gastronomica alle classi medie. Ancora all’epoca della prima edizione, l’unificazione del paese era più virtuale che effettiva: in pochissimi parlavano italiano, gli infiniti particolarismi regionali e l’acceso campanilismo vanificavano gli sforzi unificatori dell’amministrazione sabauda.

La “Scienza in cucina”, oltre ad essere quel delizioso ricettario che tutti, almeno di nome, conoscono, svolse anche, in modo discreto, sotterraneo, impalpabile, il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, l’eterogenea accozzaglia delle genti, che solo formalmente si dichiaravano italiane (Camporesi, op. cit., xii).

Attraverso le ricette di Artusi le classi italiane medie divennero sia più consapevoli dell’esistenza delle diverse regioni sia, allo stesso tempo, di appartenere ad un’unica comunità, la comunità degli italiani: i “Risi e luganiche” della cucina veneta (ricetta 42), i “Maccheroni con le sarde alla siciliana” (ricetta 88) e la classica “Zuppa inglese” toscana (ricetta 675), contribuirono non poco all’unificazione spirituale del paese, quanto meno a tavola.

La gran parte del ricettario di Artusi si basa sulla tradizione gastronomica emiliano-romagnola (Artusi era nato a Forlimpopoli e mantenne sempre stretti rapporti con la sua terra) e quella tosco-fiorentina (Artusi visse a Firenze per gran parte della sua vita). La cucina delle altre regioni è invece presente in maniera nettamente minore.
Lo schema artusiano evita poi anche tutti quei piatti eccessivamente municipali: troppo legati a prodotti e gusti locali, sarebbero stati “incomprensibili” a tutti gli altri italiani. Ugualmente, sottolinea Camporesi, i piatti a forte connotazione “popolare” sono banditi: la cucina di Artusi è una cucina essenzialmente borghese, descritta da un borghese e rivolta ad altri borghesi.
Non c’è posto ad esempio per tutto quel repertorio di minestre e polente a base di cereali “inferiori” (farro, orzo e miglio) che avevano invece cosituito un’ancora di salvezza per intere generazioni di contadini.

fonte: Pellegrino Artusti.it e mangiare bene.com

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