L’origine del riso è leggendaria, ma sembra che i primi raccolti di riso (in Asia) risalgano forse a 10.000 anni fa e che nell’isola di Giava si coltivasse il bianco cereale già oltre 7.000 anni fa. In ogni modo nel 1996 fu scoperta una risaia ritenuta la più antica del mondo: risalente ad almeno 6.000 anni fa, si trova nella Cina orientale, nell'area del delta del fiume Yangtze.
Si tratta di 33 campi - il più grande di 12 metri quadri, il più piccolo di un solo metro - per un totale di 450 metri quadri. Gli scavi hanno rivelato la presenza di numerosi grani di riso di tipo coltivato, e resti di un sistema d’irrigazione con canali collegati fra loro. Tra gli oggetti disseppelliti figurano anche utensili a forma di gancio (fabbricati con corna di cervo) e vasellame, probabilmente usati per raccogliere acqua da sorgenti vicine.
Nessuno conosce il numero esatto delle varietà di riso coltivate nel mondo intero (con la sola eccezione dell’Antartide). Gli scienziati, però, stimano che siano almeno 140.000.
I campioni dei mangiatori di riso sono i cambogiani, cui spetta la palma del più elevato consumo pro capite: a loro, il riso fornisce quasi l’80% dell’apporto calorico quotidiano.
In testa alla classifica dei paesi esportatori di riso c’è invece la Thailandia (7.6 milioni di tonnellate l’anno), seguita dal Vietnam (3.7) e dagli Stati Uniti d’America (2.6).
Sembra che la parola “riso” abbia origini indiane: dal sanscrito urihis all’iranico brizi e poi al greco orizi (che fu la base lessicale del nome in ogni idioma), mantenendo invariata la radice il termine è entrato nel vocabolario di tutte le lingue. Il nome scientifico del cereale più famoso e diffuso nel mondo è Oryza Sativa.
«Nel riso è sostanza e letizia»: lo affermano i Veda, sacri testi indiani risalenti al 2o-1o millennio a. C. Budda, invece, disse che «chi offre il riso dà la vita», probabilmente intendendo che in molti paesi è l’unico cibo e quindi rappresenta la sopravvivenza.
Ancora a proposito di India: quando nasce un bambino gli si introduce in bocca un pizzico di riso in polvere, mentre l’estremo omaggio ai defunti è un mucchietto di bianchi granelli.
Un’usanza parecchio diffusa ancor oggi in molti paesi: accogliere i novelli sposi, all’uscita dal Municipio o dalla chiesa, con una pioggia di chicchi. E’ un segno augurale che ci arriva ancora una volta dall’India, dove - secondo la più antica simbologia del cereale - il riso era considerato portatore di prosperità ed anche di fertilità.
Secondo altre fonti la tradizione nasce invece da un antico rito greco, secondo il quale (anche in questo caso con l’intento di propiziare fertilità e prosperità) sulla coppia di sposi si facevano piovere dolci di riso. Diversa, infine, la tradizione indonesiana: in questo caso, il gesto aveva lo scopo di trattenere l'anima dello sposo che altrimenti, subito dopo il rito, sarebbe fuggita via per non tornare mai più.
«Manasa hihinam-bary!». I malgasci non invitano a mangiare, ma a condividere il loro riso: è ben più di una sfumatura lessicale, questa, perché traduce il ruolo che tale derrata riveste non soltanto nelle abitudini alimentari, ma nella cultura del Madagascar.
Per molto tempo il riso è stato, per i Cinesi, moneta corrente. Nella stessa Cina, come un po’ dovunque, nel corso del tempo insieme al riso sono fioriti innumerevoli proverbi. Qualche esempio: «Mangia il tuo riso, al resto penserà il cielo», «Parlare non fa cuocere il riso», «Anche la migliore delle massaie non può, se non ha del riso, preparare il suo pasto». E’ malgascio, invece, il proverbio che avverte: «il dispiacere è come il riso nel granaio: ogni giorno diminuisce un po’».
Dal riso si ricavano anche biscotti salati e numerose bevande. Un esempio ben noto è il saké, la bevanda nazionale giapponese. In Madagascar la bevanda tradizionale, a base di riso scottato, è l’anonapango sempre presente sulla tavola dell'isola africana. Qui, d’abitudine si cuoce il doppio del riso necessario per il pranzo; quello che avanza si fa cuocere ancora fino ad essere abbrustolito, procedimento grazie al quale assume un sapore caratteristico, poi si aggiunge dell’acqua bollente. Infine, quando il tutto è raffreddato, si filtra e si tiene al fresco per poi consumare la bevanda durante i pasti.
Il primo “risotto” nostrano risale forse al 1308. Fu approntato - nella sua villa di Rubinazzo, con riso proveniente dalla Sicilia - dal bolognese Pier Crescenzio, che in quello stesso anno scrisse del riso come del “tesoro delle paludi”.
Nel cosiddetto Nuovo Mondo il riso arriva nel 1493, con il secondo viaggio di Cristoforo Colombo (per una volta, gli Europei hanno portato qualcosa invece che limitarsi a prendere...). La sua coltivazione effettiva sarà però molto più tarda, ed è un merito da ascrivere agli Inglesi sebbene non si tratti certo di un loro “regalo” ai popoli dell’America colonizzata.
Gli Inglesi - che conoscevano il riso fin dall’epoca dei Crociati, ma non lo apprezzavano molto e, in ogni caso, non potendo coltivarlo lo dovevano importare - nel 1600 operano un tentativo di “produzione in loco”. Siamo in Virginia, e il totale insuccesso dell’esperimento induce a credere (erroneamente) che il suolo americano sia inadatto. Una convinzione che il tempo s’incaricherà di smentire clamorosamente, quando - circa un secolo dopo - un guasto costringe una nave partita dal Madagascar ad attraccare a Charleston, nella regione costiera della Carolina del Sud.
Salito a bordo per i convenevoli d’uso, uno dei padri coloni apprende che la nave è carica di riso grezzo da semina e se ne fa dare un sacco. Prova a seminarlo, e il risultato - in quel clima umido e caldo - si rivela sorprendente, tanto che con un solo raccolto riesce a sfamare l’intera colonia. Nasce così, a quanto si narra, il famoso riso Carolina a grana lunga. E così si continua a chiamarlo, anche se nella Carolina la coltivazione è cessata nel 1865, assieme alla Guerra Civile americana: ormai, in realtà, il “Carolina” proviene dalle piantagioni della Louisiana, dell’Arkansas e della California.
Ancora più tardo è l’inizio delle coltivazioni nell’America del Sud (in Brasile ed Argentina, nel XVIII secolo) ed in Australia, ultima tappa del giro del mondo (in alcune migliaia di anni...) compiuto dal riso.
Nel 1787, quando era ambasciatore in Francia, Thomas Jefferson (che più tardi sarebbe diventato il terzo presidente degli Stati Uniti) trascorse un breve periodo fra il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. La qualità del riso italiano lo colpì a tal punto che pensò di farlo studiare, e magari “copiare”, dai produttori del suo paese.
Prima, però, doveva risolvere un piccolo problema: aggirare l’ostacolo rappresentato dal fatto che il governo piemontese vietava l’esportazione di riso grezzo. Per riuscirci, non esitò a farne contrabbandare un sacco da Vercelli a Genova. Anzi, fece di più: come ulteriore misura precauzionale, se ne nascose addosso quanto più poteva. E, sia pure di frodo, trasportò di persona oltre frontiera il buon riso “made in Italy”.
Si narra che prima della battaglia di Montevideo (1838) l’«eroe dei due mondi», alias Giuseppe Garibaldi, abbia cercato vigore nel piatto estivo dei gauchos: riso e latte.
Un dato che nulla ha da spartire con il clima delle leggende: alimentazione a parte, il riso e i suoi derivati sono usati per fabbricare ogni sorta di cose (corda, materiali d’imballaggio, carta, dentifricio...). In particolare: da 100 chili di risone si ottengono 60 di riso bianco e 40 di sottoprodotti.
Che fine fanno, gli scarti (ovvero lolla, pula etc)? Sono utilizzati in un’abbondante trentina di modi diversi, almeno a livello industriale: dai fertilizzanti ai combustibili, dalle ceramiche ai filtri per depurare l’acqua, dalle lenti di precisione alla cosmesi. Del resto la cipria, il più antico e diffuso belletto del mondo, un tempo non era altro che polvere di riso; e polvere di riso era usata, nel ‘700, per rendere candide le parrucche dei nobili.