Tradizioni culinarie nella festività di S. Giuseppe

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kamo58
00sabato 19 marzo 2011 12:09
La consumistica Festa del papà che ricorre il 19 di Marzo giorno in cui si festeggia San Giuseppe sposo di Maria e padre di Gesù, è legata a tradizionalissimi piatti che si usano preparare per questa data, legati soprattutto alle tradizione regionale italiana e che hanno origine addirittura nella Roma Antica.

La tradizione regionale campana ci presenta le zeppole di San Giuseppe, dorate ciambelle di pasta di sola acqua e farina fritte in olio bollente e poi passate in un miscuglio di zucchero, o miele e cannella ed a volte ornate da un ciuffo di crema e qualche amarena.
Qualcuno preferisce le zeppole al forno ma queste non sono in realtà le vere zeppole ma piuttosto dei normali bignè di pasta choux adorni di crema e amarene.
L’origine di questo dolce è antichissima, nell’antica Roma le Liberalia erano quello che rimase dei più famosi Baccanali, il 19 marzo è, infatti, la data alla vigilia dell’equinozio di primavera in cui appunto si svolgevano gli antichi riti dionisiaci di propiziazione e fertilità, poi vietati anche a Roma per l’eccessiva licenziosità dei costumi fino ad addirittura perseguitarne gli adepti, ma cmq si viveva un clima di festosità e si beveva rosso nettare la popolazione banchettava per strada e vecchie donne incoronate d’edera offrivano focacce di farina, olio e miele.
Nel mese di marzo cadevano anche i riti di purificazione agraria. Il collegamento a questi ultimi culti è palese nella tradizione dei falò ancora oggi viva in molte regioni: si bruciano nelle piazze residui del raccolto dell’anno precedente e cataste di legna come auspicio di una buona stagione.

E’ suggestivo pertanto pensare che questa antica festa pagana, così come tante altre, sia stata sostituita dalla festa cristiana mantenendo da allora le tradizioni di questa semplice leccornia.

In molte località del Sud Italia c’è una grande devozione per il santo, ed ancora oggi viene venerato con grandi manifestazione di fede che coinvolgono intere comunità, ad esempio nel trapanese è tradizione allestire i cosiddetti Altari di San Giuseppe, soggetti ad un rito ben preciso che ha inizio molto tempo prima della festa con una questuatra i poveri che serve a raccogliere i fondi necessari per l’allestimento vero e proprio.

Il giorno della ricorrenza si allestisce un banchetto per i santi,un ricco ristoro organizzato in favore dei più poveri, con un gran numero di piatti preparati dai devoti senza parsimonia, unici divieti, cadendo la festività in Quaresima, sono le carni e i formaggi.

I riti sono tanti e diversi per ogni regione, non ci sarebbe ne tempo lo spazio sufficiente per parlarne, mi limiterò a selezionare qualche ricetta del Menù tradizionale in uso nel pugliese e precisamente, nella zona a Sud di Otranto che comprende Uggiano, Minervino, e Cerfignano,
con l’aiuto della bellissima pubblicazione di Giorgio Creti - La cucina del Sud - Capone Editore

Si comincia con i pampasciuni
oju ‘citu e subito si passa a la
massa
cu li cauli
poi si servono i maccaruni
cu lu mele,

quindi i
ciciri cotti alla pignata

rape ndilissate
poi è la volta dello stoccapesce
tuttu paru,
delle bope
fritte o arrostite,
della frittura
di cavolfiori
e degli struffoli
e cartedhate
oggi sostituiti da zeppole di pasticceria.

per subbrataula finocchi crudi.
Al termine del convivio fine, quando ciascun santo torna a casa, riceve, oltre al cibo messo da parte durante il rito, un grosso pane casereccio, una grossa arancia e una bottiglia di vino.
Il pane è del tipo a ciambella, del peso fino a cinque, sei chili. Una volta a casa del santo il pane è affettato e distribuito a parenti ed amici come pane benedetto.


A Genova la ricorrenza è molto sentita, a giudicare anche dalle leggende che riguardano Varazze, Prà e Pegli, e dalla fondazione in rione Portoria di un Conservatorio per la tutela delle Joseffine, come furon chiamate le giovani figlie di San Giuseppe, orfane o abbandonate, cui la Chiesa offriva un ricovero a salvaguardia. Le frittelle originano dalle frictilia romane, che friggevano nello strutto. In Italia assumono diversi nomi: cenci, frappe, chiacchiere, bugie, crostoli, nastri, coccarde, mirulin… Sono tipicissime ad esempio della Val Bormida savonese, classicamente con uvetta (bagnata nel rhum) e zucchero a velo. Chiamate in dialetto “frisceu co-o zibibbo”, impiegavano in origine l’uva nera di Corinto, e solo successivamente quella sultanina (turca). Profumate grazie alla cannella, l’acqua frizzante dell’impasto le gonfia golosamente. Ottimale un abbinamento con DOC Golfo del Tigullio moscato, che con un po’ d’effervescenza “sgrassi” la bocca, ma anticamente si apriva non senza solennità la piccola scorta di moscatello di Taggia. Per San Giuseppe si friggevano anche fiori d’acacia (con tutto il grappolo), pampalà (primule selvatiche), robinie e foglie fresche di limone, uso purtroppo oramai perduto.

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