00 24/09/2006 00:54

EUROPA
13 settembre 2006
Schiena dritta sul “conflitto”
di Montesquieu

Riparte in questi giorni alle Camere il confronto su quello che è ormai, nel mondo avvezzo all’uso delle regole democratiche, l’emblema del conflitto tra interessi privati e interesse pubblico. Assieme a quello della Thailandia, che dovrebbe però far parte, tra le democrazie, di un altro girone.
Quindi, una data da segnare addirittura come l’obiettivo della legislatura: più di tutte le riforme costituzionali invocate, discusse, approvate e poi bocciate negli ultimi decenni, non anni. Perché è, si potrebbe dire, una preriforma, un campo sgombrato e reso agibile per i necessari interventi di innovazione istituzionale e costituzionale. C’è nell’aria, però, ben poco della tensione, dell’attesa, che accompagna momenti così importanti, eccezione fatta per gli ottimisti di mestiere e gli smemorati.
E’ bastato l’annuncio che si ripartiva, perché uomini e partiti della maggioranza si impegnassero a dispiegarsi l’uno lontano dall’altro. Difficile accostare due posizioni in sintonia: si va dalla ineleggibilità, tutt’altro che campata in aria, che taglia alla radice il problema, una volta per tutte; e si arriva, attraverso numerose stazioni,a quanti si rifiutano di considerare questo come un problema. Non è una priorità, si sente dire di solito in questi casi. Tra questi, chi accetta una soluzione purchè non riguardi l’ex capo del governo, perché con lui si può dialogare; e chi, addirittura, sembra esserglisi affezionato con gli anni, quasi come ad un parente. Sono, queste ultime, posizioni di autorevoli leader campani, come testimonia la presenza in esse di un tanto di sentimento e un tanto di cinismo.
Un’altra posizione, è quella di chi chiede che il governo stia fuori dalla partita. La motivazione è alta, la difesa delle prerogative del parlamento: però, nella sostanza, a distinguere la maggioranza in parlamento dal governo vi è solo il capo del governo medesimo, che non è a capo di un partito. Inoltre, a motivare l’invito a stare ai margini, vi sarebbe una maggiore facilità di dialogo tra maggioranza e opposizione.
Se questo dialogo con l’opposizione, o con segmenti di essa, vi sarà, non sarà per l’assenza del governo, quanto per la determinazione di quanti non vogliono morire berlusconiani. Diversamente, e fino ad oggi, la compattezza di tutto il centro destra a protezione degli interessi non solo economici e mediatici - basta ricordare gli interventi legislativi per intralciare i processi – del capo, è stata granitica, senza spiragli e senza eccezioni.
Ci sono, ancora, quelli che puntano sulla incompatibilità, la posizione forse più realistica e più rispettosa della nostra vicenda politica recente. A patto che l’incompatibilità copra tutte le posizioni dalle quali si può influenzare il rapporto tra convenienza privata e difesa della collettività. Che non sono solo quelle governative: si pensi ad esempio a come l’uso, spregiudicato ma non antiregolamentare, dei poteri del presidente di un ramo del Parlamento abbia determinato la nuova legge elettorale. Così, in modo più limitato, per altri incarichi parlamentari, quali la presidenza di commissioni, e anche per posizioni istituzionalmente più “private”, come i vertici dei gruppi parlamentari. Nemmeno la presidenza o la presenza, comunque, in un’autorità di quelle dette indipendenti è esclusa, se concetti come la notoria indipendenza, requisito legislativo per farne parte, è stato applicato a parlamentari e uomini di governo in carica. L’incompatibilità che risponde allo scopo, allora, finisce per assomigliare all’ineleggibilità.
Un po’ di pazienza, e si capirà come si mettono le cose. Un’avvertenza, però, è utile: i conflitti di interesse – sempre possibili in ogni posizione di potere – sono come le scatole cinesi o, se si preferisce, le bambole russe. Ne levi una, e ne trovi un’altra, in evidenza. Un gioco senza fine, o quasi. E non tutti i conflitti di interesse possono essere prevenuti o sanzionati legislativamente. La gestione delle nomine, non solo quelle pubbliche, da parte della politica di tutta l’epoca
repubblicana è stata così invasiva, così mirata ad interessi di parte, da aver creato una situazione in cui c’è un grande serbatoio da cui si traggono, alla bisogna, deputati, ministri, dirigenti pubblici, primari, rettori, giornalisti, membri del consiglio superiore della magistratura: l’elenco è potenzialmente lunghissimo. In questo serbatoio, alla fin fine, tutti fanno un mestiere solo, tutti servono la politica, tutti fanno politica. Si possono trovare deputati alla testa di telegiornali, con andata e ritorno. Esempi, solo esempi. La sfiducia in tutto quanto è pubblico, e quindi politico, è diventata altissima, e riguarda la grande maggioranza dei cittadini; la selezione della classe dirigente, nel senso più lato, è limitata ad una minoranza, cui manca spesso il requisito più importante e difficile, l’indipendenza. Che, sia chiaro, è compatibilissima con la presenza di forti e radicate opinioni politiche: ma che è riconoscibile, e diviene spesso il primo motivo di esclusione.
Indipendenza e competenza, quindi, la miscela ideale: e basterebbe cominciare, da parte dei partiti, da parte del governo, con qualche segnale, per invertire la rotta della fiducia. La schiena dritta, per dirla con l’ex capo dello Stato, come primo requisito di ogni scelta.




INES TABUSSO