La popolare cucina di strada palermitana, gestita anticamente dai “buffittieri”, dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti che serviti su un ripiano, spesso improvvisato, dove si vendono per la strada.
Considerata la più antica e ineguagliabile cucina, perdurata nel tempo, grazie al gusto dei palermitani di secoli fa tramandato come retaggio a quelli di oggi.
Adoperata nelle città greche siciliane, ben presto si diffuse in tutta l’isola, già 2.500 anni fa si vendevano nel “thermopolium” verdure bollite, assieme a interiora bollite o arrostite sulla brace, ciarpami di carne e pesce fritto, che si poteva mangiare sul posto o portare a casa, oggi diremmo che questo genere di asporto si possa riferire al moderno fast-food alla palermitana.
In tempi più ravvicinati e fino a qualche anno fa persisteva la “tavola calda” che c’è la tramandarono gli arabi.
Ormai radicata in tutta la città, questi cibi si possono gustare in vari luoghi distribuiti percorrendo le sue vie in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani (Ballarò, Capo, Vucciria e Borgo).
La “pastella” è una pasta di farina un po' molliccia ottenuta frustando la farina con l’acqua in abbondanza aggiungendo una presa di sale e una parte di lievito, lasciata a riposare per un certo periodo di tempo, (almeno un’ora) dopodiché si immergeranno delle verdure che “metteranno la camicia”, cioè un sottile velo di pasta, solitamente broccoli (cavolfiore), carciofi (cuore) e cardoni (cardi) che immersi in una padella con olio caldo verranno fritti.
Specialità queste che vengono vendute nelle friggitorie stanziali o improvvisate, un’altra pietanza simbolo della cucina di strada è il “pani e panelle”, quest’ultimi una sorta di “schiacciata” di piccole dimensioni, di un bel colore dorato di farina di ceci.
Associate alle panelle più delle volte ci si immettono le “crocchè” comunemente conosciuti dai palermitani come “cazzilli”, richiamandosi alla loro forma fallica.
Realizzate con purea di patate “viecchi” vengono fritti con abbondante olio caldo, hanno un gusto particolare che gli viene dato dall’associazione di una manciata di prezzemolo o mentuccia nella purea.
Nasce dalla farina di grano, un pane speciale “lo sfincione”, grossa sfoglia di pasta lievitata con uno spessore abbastanza ragguardevole, condita con salsa di pomodoro con l’aggiunta di cipolla, pezzettini di acciughe e caciocavallo a scaglie, il cui nome con molta probabilità deriva dal greco “sponghia” (spugna) per la sua morbidezza.
Un denso fumo che si eleva da una griglia, un odore piccante e stregante, richiama i frequentatori di uno strano individuo “ù stigghiularu”, li ad armeggiare con una bottiglia che cosparge acqua per attenuare il fuoco, uno spiedino ha qualcosa infilzato a mò di serpente è la “stigghiola”, interiora di vitello intrecciate con cipolla scalogno che li rendono uniti e li profumano.
La loro cottura è un’arte, esse non devono perdere il preziosissimo grasso interno che il fuoco fonde e lo rende cremoso, e non debbono essere bruciate, l’abbrustolimento deve essere dolce e lento.
Alla fine staccata dallo spiedo con maestria verrà tagliata a pezzi è gustata con una manciata di sale e limone in abbondanza, e messa in un piattino di alluminio.
Quella di cucinare alla brace per i palermitani è una grande passione, e la grigliata appartiene ai giorni di festa che casualmente si presentano con il periodo della primavera e con le belle giornate all’aria aperta, la stigghiola è un avvezzo per non perdere questo piacere.
Le stesse interiora di vitello, pulite con acqua e sale, tagliate a pezzi e messi a bollire in pentola, appartengono alla famiglia della ”quarume” o caldume che, servite calde e brodose, danno un piacevole ristoro.
U’ quarumaru si procura le “frattaglie” al mattatoio dove acquistano una prima pulitura con acqua e sale per poi procedere ad una pre-bollitura.
Una volta aveva bottega nei mercati e nei quartieri popolari e nella sua insegna di bottega c’era scritto “Brodo e pietanza”, in questo luogo definiva meglio la preparazione, il bancone era apparecchiato fuori “a putia” e, in un angolo una grossa pentola piena d’acqua conteneva la caldume: ziniero, centopelle, matruzza, corata e quagliaru, tutte parti diverse delle viscere del vitello, aromatizzate con l’aggiunta di carote, sedani, cipolle, pomodori, sale quanto basta e foglie di alloro, questo era il corredo tradizionale per creare il brodo, c’era chi in più gli metteva anche le patate.
Alla domanda da parte degli avventori, il quarumaru, estraeva una piccola parte di ogni pezzo e la tagliava nel tagliere servendola in un piatto, a richiesta gli veniva servito il brodo in una scodella, vecchio e consolante dispensa per i mesi umidi e gelidi.
Il terzo gruppo che suddivide questo escursus gastronomico racchiude i prodotti del mare ed in particolare i molluschi.
Per la strada e nelle zone marinare (Mondello, Sferracavallo e Romagnolo) e facile incontrare in modo particolare i “purpari” cioè il venditore di polpo bollito.
Il loro bancone, sempre lindo, quasi maniacale è il loro gesto, accompagnato da una spugna che lo travolge inconsapevolmente, è apparecchiato con grandi piatti di ceramica, da una ampia pentola piena d’acqua di mare resa incontaminata (una volta era di creta e molto panciuta) tira fuori un discreto polpo (majulino) bollito, i suoi tentacoli tagliati a pezzetti verranno serviti sul bianco ceramico piatto con succo di limone.
A richiesta gli avventori degustano la “testa”, tagliata a metà e privata da una ghiandola che la renderebbe amara per il suo contenuto, si gusta il suo bagaglio recondito.
I venditori di frutti di mare nei loro deschetti offrono ricci, ostriche, cozze (mitili) e “muccuni”, consumati a crudo con l’aggiunta a piacere di succo di limone, secondo consuetudini popolari, chi preferisce assaporarli scottati si rivolgerà a cozze e muccuni che portati bolliti si potranno gustare con limone e a volte con una spolverata di pepe.
Il venditore, fornito con un grosso guanto, per non pungersi dalla presenza degli aculei del riccio, lo taglierà in due parti e lo presenterà su un piatto che crudo sarà gustato accompagnato da un scampolo di pane (mafalda), l’avventore ne estrarrà la parte più succulenta, quella rossastra, venduti a piattini, il loro contenuto è di una dozzina.
Siamo alla fine del nostro modesto viaggio gastronomico e possiamo constatare che questo particolare tipo di cibo, derivato dai dominatori arabi, ebraici e spagnoli, vecchio di secoli, non conosce crisi: avendo superato anche le rigide limitazioni delle norme igieniche, ha saputo contrastare l’avvento di moderne strutture dove si può consumare un pasto veloce (fast-food) e, le mode salutiste ed a resistito a tutto oggi alla cultura del presente, fiore all’occhiello del buon gusto ma anche dell’arte di arrangiarsi.
Ciò che è stato narrato, pur con dovizia di particolari storici, non può né potrà mai sostituire l’esperienza diretta: al viaggiatore raccomandiamo quindi di soffermarsi davanti ad una friggitoria, prima di acquistare il “pane con le panelle”, per assaporare gli intensi profumi dei vari ingredienti. Poi assaggi. Il gusto “unico” della panella solleciterà le sue papille gustative come non mai. Degustandola, provi a guardarsi attorno… i palazzi… le chiese… la storia, gli sembrerà di farne parte ...
Panelle
Gr. 500 di farina di ceci. Un litro d'acqua, sale e pepe.
Sciogliere a freddo in una pentola antiaderente la farina di ceci, facendo attenzione ad evitare grumi. Aggiungete sale e pepe.
Passate sul fuoco a fiamma bassa, rimescolando con un cucchiaio di legno finché il composto non si staccherà dal fondo, e comunque massimo 15 minuti. Versate su un marmo bagnato e spianate con un coltello fino a rendere l'impasto sottile (5 millimetri o poco più) e regolare.
Quando sarà freddo, tagliate a rettangoli (max cm. 5x10). Friggete in padella con olio di semi (appena dorate da ambo i lati, mai scure) e servite calde con un pizzico ulteriore di sale. Nel frattempo, fate sparire il pane dalla tavola. Le panelle sono una delizia della cucina mediterranea.
[Modificato da kamo58 27/01/2012 15:42]